Qui sotto potete leggere l’articolo scritto da Marinella Venegoni, giornalista de La Stampa, invitata alla presentazione.
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BRESCELLO Lui dice “folk”, il supercapo Universal corregge in “roots”. Ma ci siamo comunque capiti, il nuovo disco di Zucchero, «Chocabeck», che uscirà il 3 novembre, fugge dagli usuali territori r’n’b per rifugiarsi in ricordi e affetti struggenti dell’infanzia nella Bassa Emiliana, sontuosamente rivestiti di preziosi flauti, tromboni, banjo, corni inglesi, viole e violini e quant’altro. E anche se indiscutibilmente è riconoscibile nei suoni e nella (più rara del solito) balda ritmica, l’album fa a meno di basso e batteria, per trovare una dimensione adatta a quello che il vecchio Adelmo definisce un «concept album con omogeneità nel suono», su una giornata che fra alba e tramonto racconta un mondo dove non era obbligatorio «mordersi come oggi nei talk-show».
Evocativo, malinconico, «Chocabeck» versione italiana si apre con «Un soffio caldo» scritto a quattro mani con Francesco Guccini; Zucchero si mostra campione di understatement perché quasi non accenna alla versione anglosassone (e già su iTunes) di uno dei brani più intensi, «Il suono della domenica», che ha il testo di Bono degli U2: «ascoltandolo a Roma, prima del concerto all’Olimpico, Bono si è commosso alle lacrime», ricorda il manager di Zucchero, Copeland. Iggy Pop ha invece scritto i testi di «Chocabeck» e «Alla fine». Se si aggiungono due produttori di fama come Don Was e Brendan O’Brien, se si contemplano i coretti preparati e cantati dal leggendario Brian Wilson dei Beach Boys sempre per quella sorta di tammuriata della Bassa che è «Chocabeck», si avrà un’idea del panorama internazionale coinvolto nel progetto di Zucchero, oggi cinquantacinquenne.
Malgrado tanto splendore di collaborazioni, egli resta tuttavia con la testa nelle radici, tanto da aver voluto presentare il nuovo album a Brescello, poco lontano dalla sua nativa Roncocesi, dove fra i ’50 e i ’60 si girarono i cinque film di Peppone e Don Camillo, con Gino Cervi e Fernandel. Il paese, rimasto tale e quale (ma con i problemi di oggi) ha accolto Zucchero con il suono delle campane della chiesa nella quale Don Camillo riceveva la paternale dal Crocifisso, quando esagerava nelle sue lotte politiche. Una gran festa con giostre in strada e gnocchi fritti, e conferenza stampa al museo di Peppone e Don Camillo; sotto il cielo piovoso, i locali hanno rallegrato la kermesse, che Zucchero è rimasto unico a volere per i suoi dischi, in questi tempi così avari di idee e generosità.
«Mi sembra di essere a casa, il mio paese Roncocesi è a soli 10 km da qui – confidava Zucchero -. Brescello è adatto a incarnare il paesello immaginario di cui parlo nell’album, con i miei ricordi: lo zio detto Guerra fervido leninista-maoista che passava le giornate a discutere col parroco detto Don Tagliatella, ma poi la domenica sera lo invitava a cena: “Non ha famiglia, poverino”, diceva». Ora, fa intuire l’artista, gli avversari si mangiano e basta: «Per questo ho pensato a un disco di radici, fotografia non romantica di sapori e odori di un tempo senza arroganza e con voglia di vivere. “Chocabeck”, che vuol dire suono di becco vuoto, era quel che mi rispondeva mio padre quando a tavola, la domenica, chiedevo che cosa c’era di dolce».
Fra tante ballads, farà ballare «Vedo nero», dal testo un po’ grasso, che inevitabilmente rimanda alle vicende di Rudy Rubacuori…«Ho conosciuto Prodi, e Sircana che sa suonare la chitarra, ma non conosco Berlusconi: come faccio a parlarne? I musicisti stranieri che mi circondano in questi giorni mi consolano: “E’ così certo, ma d’altra parte non avete alternative”». L’album in gennaio uscirà con la Decca «popizzata» in doppio disco, inglese e italiano. E sabato prossimo Zucchero andrà a cantarlo e raccontarlo da Fazio, prima di un lungo giro europeo di promozione che prelude alla partenza, il prossimo anno, del tour: debutto l’8 maggio 2011 a Zurigo, e dal 6 giugno cinque date all’Arena di Verona.